Un viaggio nella De Architectura 2.0 italiana e internazionale
Ciascuno ha le proprie stravaganze, la mia è gironzolare e osservare le architetture. Non parlo solo dei palazzi, delle chiese e dei monumenti, ma dei quartieri e delle abitazioni che costituiscono il tessuto delle nostre città, grandi o piccole che siano.
Mi piace contemplare l’infinita varietà di sfumature che spaziano dal bello al brutto, dal funzionale all’irrazionale, dal design stiloso al fai-da-te più sfrenato.
Osservare l’architettura di certi luoghi equivale a sfogliare un catalogo dei gusti e dell’urbanistica dal dopoguerra al ventunesimo secolo.
Ed osservando spesso mi chiedo: cosa resterà di noi? Cioè cosa rimarrà dell’architettura odierna e di quella non abbastanza datata per essere definita antica?
I nostri centri storici sono circondati da quartieri che, come gli anelli concentrici di una cipolla, si sono stratificati in orizzontale a partire dalla fine dell’Ottocento. Anello dopo anello, quartiere dopo quartiere, leggiamo l’evoluzione residenziale e industriale. Certo, conoscere la storia dell’architettura aiuta, ma spostandosi da una via all’altra anche un profano riesce a cogliere i cambiamenti di gusto che si sono accavallati in un secolo e mezzo.
Non tutto è bello, non tutto è brutto, molto è stato salvato e molto è stato trasformato e rigenerato in qualcosa di nuovo. Le modifiche apportate al concetto di “modernità” durante il Novecento sono di per sé tumultuose.
Se per secoli i richiami alle architetture classiche, greche e romane, hanno contraddistinto gusti e stili, dalla seconda metà dell’Ottocento assistiamo ad una evoluzione senza precedenti: Neogotico, Liberty, Eclettismo, Razionalismo, Brutalismo e Postmoderno si susseguono condividendo spesso i medesimi spazi.
La stessa rivoluzione coinvolge i materiali. Pietra, mattone e marmo hanno caratterizzato per millenni l’edilizia, dalle prime ziggurat sumere, alle piramidi egiziane, fino alla Roma imperiale e ai grandi palazzi rinascimentali e barocchi.
Poi, alla fine dell’Ottocento, appare sulla scena il cemento armato. Considerato dall’industria edile “una panacea per tutti i mali” permette di superare i limiti, soprattutto verticali, imposti dai precedenti materiali di costruzione.
Senza il cemento armato non avremmo lo skyline di New York, né i grandi condomini residenziali del boom economico (forse non avremmo neppure gli anziani che guardano i cantieri, ma questo è un altro discorso).
Al cemento armato si sono poi aggiunti i metalli (acciaio, ferro, alluminio e titanio), il vetro e, per richiamare la natura, il legno lamellare.
La possibilità di plasmare questi materiali ha permesso di creare nuovi linguaggi architettonici; svincolanti dai limiti delle linee orizzontali e verticali gli architetti hanno creato forme sinuose ed avvolgenti. Due esempi sono il Museo Guggenheim di Bilbao, progettato dall’architetto canadese Frank Gehry e inaugurato nel 1997, e il Centro Culturale Heydar Aliyev a Baku, realizzato nel 2012 da Zaha Hadid (prematuramente scomparsa nel 2016).
Purtroppo cemento armato e metalli, all’inizio considerati eterni quasi come la pietra, alla lunga hanno evidenziato il loro limite, rappresentato proprio dal tempo.
Senza una costante e metodica manutenzione hanno la pessima abitudine di sgretolarsi, arrugginirsi e corrodersi. Le piramidi di Giza saranno ancora al loro posto fra duecento o trecento anni, la stessa cosa non si può dire per i vertiginosi grattacieli che si stagliano nei cieli di Dubai.
Essenzialmente le metodologie costruttive impiegate dal ‘900 in poi sono volte a realizzare edifici destinati a durare non nei secoli ma nei decenni.
Più si espandono le metropoli e maggiore è la necessità di un continuo rinnovamento urbano: un’equazione il cui risultato è spesso la demolizione.
Dove sorgevano palazzine ottocentesche sono stati edificati condomini, a loro volta rimpiazzati da nuovi complessi residenziali o direzionali. Le vecchie aree artigianali dei primi del Novecento, ormai dismesse, o sono state demolite o si sono trasformate in uffici, negozi e loft, destinati comunque a soccombere di fronte all’inesorabile ticchettio del tempo e delle mode.
Oggi si punta a città “verdi”, poco importa che il verde sia orizzontale o verticale, basta che ci sia: in qualche modo bisogna compensare il riscaldamento causato dalle svettanti e lucenti facciate in vetro e acciaio.
La percezione stessa del termine “città” tende ad evolvere: l’agglomerato urbano di ieri si trasforma nella smart-city di oggi, che a sua volta sarà obsoleta per la metà di questo secolo.
Visto che non sono un architetto, né uno storico dell’architettura, per trovare una risposta alla domanda iniziale “Cosa resterà di noi?” mi sono rivolto a chi ne sa più di me.
Per tanto lascio la parola all’architetta Francesca Mattei, professoressa associata all’università degli studi di Roma Tre, e all’architetto Maurizio Oddo, Phd in Storia dell’Architettura, Professore di ruolo alla Università di Enna Kore e Presidente del Corso di Laurea in Architettura.
Ne sono scaturite delle attente riflessioni sul presente e sul futuro dell’architettura, e l’assenza di una sfera di cristallo per predire il futuro lascia aperta la porta a moltissime considerazioni.
Dunque, cosa resterà della nostra architettura fra duecento o trecento anni?
Francesca Mattei: “Le posso rispondere fra duecento o trecento anni? Mi passi la battuta, ma immaginare cosa rimarrà in futuro delle nostre opere è impossibile: le varianti sono così tante che si rischia di banalizzare offrendo una risposta che non c’è. Molto dipenderà dalla cura che avremo nel conservare quanto realizzato ieri e oggi”.
Maurizio Oddo: “Una domanda complessa, seppur non scontata, a cui è difficile potere rispondere. Questo vale, però, non soltanto per l’architettura contemporanea di cui scrive ma per l’architettura di tutti i tempi. Un esempio significativo: trasformati dalla patina del tempo e della storia, come apparivano i templi greci all’epoca della loro costruzione? Colorati – addirittura sgargianti, come ce li mostrano gli archeologi nelle loro puntuali ricostruzioni – e non certo nei toni dell’ocra della pietra nuda e colorata come possiamo vederli oggi. Rifiniture colorate, oltre a fare brillare di bianco vivo tutte le colonne, definivano dettagli e sfumature in un paesaggio variopinto che non riusciamo neppure a immaginare. D’altro canto, tutta l’architettura, da quella meno nobile a quella monumentale, col passare del tempo muta a partire dalla policromia originaria, talvolta definita dall’uso dei materiali utilizzati. Fatta questa brevissima premessa, torno alla sua domanda: della nostra architettura contemporanea rimarrà molto fra duecento o trecento anni ma dipende tutto da noi! Dipende, per rimanere in ambito pragmatico, da come riusciremo a preservare, quanto viene costruito oggi, dalla conservazione dei materiali utilizzati che, a scanso di equivoci, sono altrettanto resistenti come quelli di un tempo. Ecco perché l’architettura – quella che attualmente viene costruita non meno delle opere che il passato ha preservato – deve essere interpretata da chi ne conosce la natura intima, da chi è in grado di spiegare come è costruita, come ogni edificio sia il risultato di un comporsi di saperi specifici, come lo spazio si definisca nella relatività delle forme che lo costituiscono, come le forme appartengono alle strutture, ai materiali, alle tecniche e questi, a loro volta, alle forme, ebbene, sembrerebbe ovvio affermare che di tutto ciò dovrebbero occuparsi principalmente persone per le quali la materialità dell’opera non dovrebbe avere segreti, dotate di una formazione analoga e per molti aspetti coincidente con quella di coloro che l’architettura la progettano, pur con fini diversi. In realtà, per quanto riguarda l’architettura contemporanea, la critica e la storiografia non hanno ancora acquisito l’uso di strumenti adeguati per affrontare la complessità dei problemi che hanno di fronte, ossia l’obbligo di dar conto dei multiformi significati delle opere e dei processi di cui queste sono i prodotti. E’ corretto che l’architettura risponda alle esigenze mutevoli dell’uomo e della società senza cadere nei finti storici, duraturi, sempre più di moda: Per quali misteriose vie – scrive Le Corbusier, nel 1935, in La ville radieuse – si manifesta la nostra emozione? Per la via della verità. Nulla potrebbe essere frutto di artificio: tutto è espressione coerente di un nesso di fatti reali. E tutto è così puro che qualsiasi imitazione di una tale verità stride come una sporca menzogna, chi ha pensato di usare rispetto al passato limitandosi a copiare, oggi, le forme o anche le funzioni di una cosa che non è più di oggi. Il trucco, la dissimulazione e la finzione sono smascherate dalla sentenza dell’oggi. Nel momento in cui l’edificio viene affidato al mondo come cosa, senza più bisogno di proteggersi dalla contingenza, raggiunge la sua condizione definitiva e rimane padrone di se stesso, raggiunge la sua condizione specifica e vive la sua vita. La sua ineliminabile trasformazione costituisce anche il fondamento dell’etica architettonica che, per necessità di cose e di tempo, non potrà mai essere immutabile ferma nella notte dei tempi. Tutti temi che si collocano all’interno dell’attuale dibattito architettonico che costringe a confrontarsi con opere per le quali può risultare difficile fare confronti diretti con il passato: quale reazione, di fronte a opere di F. O. Gehry come il Museo di Bilbao? Sono architetture che ricordano la nostra stessa fragilità di uomini che stanno nel mondo, nonostante esteriormente sembrano resistere alla erosione a cui le costringono gli eventi atmosferici. E tuttavia, proprio questa architettura fa pensare e riflettere come avviare il confronto con la cupa pesantezza della terra e della pietra e la materialità dell’oggetto architettonico concepito nella storia. Oggi, alcune opere – tra le altre, la chiesa romana Dives in Misericordia di Richard Meier – impongono una complessità realizzativa del progetto che non è inferiore a quella di certe architetture realizzate nel passato. Il progetto dell’architetto americano, infatti, ha costituito una sfida per le imprese e i professionisti coinvolti. Data l’altezza delle vele (26 m. la maggiore) e la loro curvatura, sono state messe a punto soluzioni tecnico-strutturali assolutamente innovative. Innanzitutto, le tre vele autoportanti, come per la grande cupola di santa Maria del Fiore, sono state suddivise in grandi pannelli prefabbricati a doppia curvatura, i “conci”, ognuno del peso di 12 tonnellate. Successivamente, per montare e assemblare i conci, è stata realizzata una “macchina” alta 38 metri. Questa macchina sollevava il concio e lo portava in posizione, all’altezza voluta e in sicurezza. Nessuna gru esistente al mondo avrebbe potuto fare altrettanto; invenzioni contemporanee che rinviano al citato progetto fiorentino, nella continuità della storia che, in ogni modo, ci costringe a stare al mondo”.
A distanza di secoli possiamo ammirare le opere di Brunelleschi, Bramante, Palladio e Bernini: tutti maestri che hanno lasciato una traccia indelebile e scritto la storia dell’architettura. Oggi abbiamo le Archistar, ma cosa resterà domani di loro? Hanno aperto la strada verso nuovi stili o si sono limitati a creare opere autocelebrative?
Francesca Mattei: “Gli studi di architettura odierni si differenziano molto da quelli del passato. Parlare di nuovi stili è scivoloso, ognuna di queste Archistar ha lasciato un segno, ma non si può parlare di uno “stile del XX° o del XXI° secolo”: è difficile leggere le correnti di una società liquida in evoluzione.
Riguardo le opere alcune possono definirsi autocelebrative, ma il discorso tocca anche i promotori dei lavori, di cui spesso non si parla.
I committenti del rinascimento e del barocco erano colti spesso più degli architetti. Oggi l’idea del mecenatismo colto e raffinato si è indebolita a favore di una ricerca quasi spasmodica dei superlativi: più grande, più alto, più avveniristico e via dicendo.
Questo può portare a un impoverimento di un dialogo “culturale” fra chi finanzia e chi crea. Ecco, penso che una delle chiavi di lettura sia proprio la differenza fra la committenza attuale e quella del passato”.
Maurizio Oddo: “Senza alcuna necessità di ribadire la verità di cui scrive – mi riferisco alla indiscutibile forza delle opere di Brunelleschi, di Bramante, di Palladio e di Bernini cui si aggiunge una lista innumerevoli di altre opere che dalle Piramidi arrivano a Ronchamp – mi preme sottolineare, sin da subito, che anche alcuni importanti Maestri della contemporaneità hanno contribuito, e continuano a farlo, a scrivere nuovi capitoli della storia universale dell’architettura. Fermo restando che, oggi, parlare di “stile” risulta obsoleto soprattutto se ci si riferisce all’architettura della immediata contemporaneità. Si dice che l’architettura sia il vero specchio della vita e dei rapporti sociali di un’epoca. Se questo è vero, e lo è, dovremmo essere in grado di leggere nelle sue espressioni attuali le forze che guidano il nostro tempo. Tuttavia, nonostante i documenti siano contraddittori, è ormai arrivato il momento di tracciare una mappa storica del Novecento, fino alle architetture più recenti.
Di conseguenza – torno alla sua domanda, a mio avviso, provocatoria – a distanza di secoli, possiamo volgere il quesito anche al mondo delle cosiddette Archistars.
Una nomenclatura orrenda, anch’essa decisamente superata. La velocità delle trasformazioni, tipica della società contemporanea, ci sta spingendo oltre, verso altri orizzonti – senza escludere i cataclismi che siamo costretti a vivere, dalla guerra alla crisi ambientale e energetica – alla ricerca di nuovi linguaggi, ma sempre radicati in un processo che la storia dovrà necessariamente riconsiderare. Di conseguenza, non mi pare corretto parlare di opere “autocelebrative” tout court se non si vuole rischiare di cadere nei soliti terrificanti luoghi comuni”.
L’edilizia “popolare” è il tessuto stesso delle città e dei borghi, almeno all’interno della cultura occidentale. Dal Medioevo in poi ne caratterizza l’aspetto, le vie e le piazze, bilanciandosi con palazzi e chiese. Ma l’attuale edilizia abitativa che traccia lascerà nelle città e nei borghi?
Francesca Mattei: “Se parliamo dell’Italia significa parlare sia di architettura monumentale che di architettura diffusa, in quanto il valore si lega al contesto specifico di ogni luogo. I borghi rappresentano l’espressione storica e geografica del territorio, ed i progetti di valorizzazione, salvaguardia e conservazione sono molteplici. Quello che leggo nella vostra domanda, come tema collegato e parlando di edilizia popolare, è quello delle periferie. Non parlo dei progetti di nuovi quartieri, parlo di quelli edificati a partire dagli anni ’50. Questo tipo di edilizia è a rischio, poiché caratterizzata da un linguaggio più “discreto” rispetto al patrimonio storico, meno in vista rispetto a quella dei borghi: pone altri problemi di conservazione rispetto a quelli dei borghi, oltre a presentare anche un diverso tipo di rapporto con i centri storici. Sono necessari piani di intervento mirati, volti ad analizzare e a studiare queste aree che hanno specifiche esigenze. Certo, il tema della conservazione è molto complesso: quali scelte effettuare? Cos’è salvabile e cos’è sacrificabile? Quali parametri utilizzare? Perché delle scelte vanno fatte, e più passa il tempo più si rendono necessarie”.
Maurizio Oddo: “Per prima cosa, è importante precisare che l’edilizia popolare, se riferita alla tipologia di riferimento, cambia di continuo e cambia con il disegno della città, influenzando quest’ultima. Allo stesso modo, bisogna capire cosa si intenda per borgo e se, ancora oggi, sia corretto parlare di borghi riferendosi al passato. Altro dato importante, pur nello spazio limitato di una intervista, il riferimento all’edilizia popolare della ricostruzione del Paese dopo il disastri provocati dalla guerra. Basterà scorrere le immagini di celebri film del Realismo italiano, con uno sguardo attento alle periferie magistralmente narrate da Pier Paolo Pasolini. Fatte queste dovute premesse, penso che anche l’attuale edilizia abitativa popolare stia scrivendo la storia di domani, buona o cattiva che sia, bisognerà aspettare che pazzi ancora qualche decennio”.
A quali cambiamenti assisteremo nell’evoluzione del tessuto urbano?
Francesca Mattei: “L’architettura si modifica costantemente sulla base delle esigenze dell’uomo e della società. Dire oggi come saranno le città del futuro equivale a pensare a tutto ed al contrario di tutto, incorrendo sia in ipotesi credibili che in fantasie futuribili”.
Maurizio Oddo: “Penso che stiamo già assistendo a una evoluzione epocale del tessuto urbano che muta in modo esponenziale rispetto al passato, senza quasi consentire un confronto con il tempo recente. Credo di non avere bisogno di giustificarmi se utilizzo termini senza fare troppe distinzioni ma facendo appello soltanto alla auspicata continuità culturale, magari contrapponendo l’ordine della mente alla complessità del mondo come suggerisce Paul Valéry. O, forse, questa stessa velocità degli eventi ha creato una maschera provvisoria dietro la quale si nascondono, ingannandosi, molti lavori di architettura, destinati ad esaurirsi nel breve arco di una generazione? Un monito che richiama il corbuseriano espace d’un matin, destinato a indicare la durata di un’opera d’architettura. Eppure, come scrive Raffaele La Capria, vive oggi una generazione che, almeno per un attimo, ha visto il mondo ancora intatto e, subito dopo, lo stesso mondo già distrutto e sfigurato, con litorali deturpati e con i centri storici sconciati con colate di cemento che hanno distrutto e stravolto chilometri di orizzonti. E chissà chi sono i più fortunati, se coloro che conservano il ricordo di quell’altro, ormai mitico mondo perduto e sono costretti a confrontarlo con la realtà di oggi, oppure i più giovani, che confronti non possono fare in quanto sono nati con il cemento, non hanno idea di quel che c’era prima e, dunque, non sanno cosa siano rimpianti e nostalgie.”
Dal mattone, al cemento armato, alla bioedilizia e alla domotica. Abitazioni attraversate da un “sistema nervoso” elettronico ed informatizzato, creato per migliorare la qualità della vita. Ma davvero la migliora o semplicemente ci intrappola in una spirale di “bisogni” non proprio necessari, ma ormai divenuti indispensabili?
Francesca Mattei: “E’ uno dei rovesci del naturale processo evolutivo del costruire. Solo il tempo potrà dire quante di queste migliorie incideranno nella nostra vita futura. Il nostro territorio è ricchissimo sotto questo aspetto, abbiamo tantissimi edifici che, se fossero recuperati sulla base di progetti pensati in relazione alle specifiche esigenze dei rispettivi territori, potrebbero offrire una valida alternativa.”.
Maurizio Oddo: “Tutto vero quello che lei scrive nel formulare la complessa domanda. Debbo dirle però che, da studioso e ricercatore dei temi d’architettura, si corre sempre il rischio di cadere nei maledetti luoghi comuni. Fino a poco tempo fa, una formula magica – rivelatasi spesso illusoria – la cosiddetta Smart City, raggruppava il sistema nervoso elettronico e informatizzato della città. All’architettura di qualità e, soprattutto, agli utenti che ne dovranno fruire non servono slogan! Al contrario il miglioramento qualitativo della vita del singolo della collettività.”
Maurizio Oddo aggiunge poi una personale riflessione sul tema ““via dalle città, torniamo a vivere in campagna”.
“E’ la città a non funzionare bene del tutto a muoversi di pari passo con le cangianti esigenze della nostra società. A ben vedere, né un pezzo di campagna trasferito in città, né un forzato bosco verticale possono rispondere ai mutati equilibri ambientali. Al contrario, inaspettatamente, anche alcuni celebri progettisti, noti a scala internazionale come Rem Koolhaas, invitano a ritornare in campagna: la città non esiste più. Poiché l’idea di città è stata stravolta e ampliata come mai nel passato, ogni tipo di insistenza su una condizione primigenia – in termini visivi, normativi, costruttivi – ha come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell’irrilevanza.
A seguire, il progettista olandese richiama l’attenzione su ciò che chiama campagna. È il tema di ricerca più recente, testimoniato dalla mostra Countryside. The Future, allestita due anni fa al Guggenheim Museum di New York. Una esposizione complessa, fatta di fattorie sperimentali e data center, destinata a mostrare l’architettura della “nuova” campagna. Se a tutto questo si sommano le gravissime conseguenze di una crisi mondiale senza precedenti, la strada appare irrimediabilmente tracciata.”
Dunque, se non esiste una risposta definitiva alla domanda “Cosa resterà di noi e della nostra architettura?” non ci resta che affidarci al tempo, arbitro supremo dell’evoluzione, e all’immaginazione, quell’arma fantastica che ci insegna a considerare il “pensare in un altro modo” più alto del “pensare allo stesso modo”.
Quelle che ci riserverà il domani, urbanisticamente parlando, dipende molto dal desiderio che avremo di migliorarci, di sognare uno stile di vita nuovo, che metta al centro non la singola persona, ma la società come insieme interconnesso di individualità. E’ un utopia? Forse.
Però, di tanto in tanto, andrebbe rispolverata una piccola lezione di William Blake, poeta inglese di fine Settecento e figura cruciale per lo sviluppo del moderno concetto di immaginazione.
“Ciò che è oggi dimostrato fu un tempo solo immaginato”.